IL QUOTIDIANO "REPUBBLICA" DELEGA SOLO
ALL'A.N.P.A. LA DIFESA DEI GIOVANI AVVOCATI
ITALIANI SUL TEMA DELLE TARIFFE FORENSI
LA REPUBBLICA
http://www.repubblica.it/
Inchiesta/ Professioni e mercati
Mille barriere alla concorrenza la
trappola delle “tariffe minime”
Nel mirino Ue gli onorari di
architetti, ingegneri e avvocati
L’Italia è anche quella delle
“tariffe minime”. Ce l’hanno tutti, dagli avvocati
agli ingegneri, dagli architetti ai ragionieri, ai
notai. Talvolta – più nobilmente – le chiamano
onorari. Servono a fare corporazione, a dare
identità, a difendere briciole di mercato. Sono
piccole barriere all’ingresso di nuovi soggetti,
soprattutto giovani; sono contro la concorrenza;
sono il retaggio di una vecchia cultura che non
vuole inquinare le antiche professioni liberali con
la moderna logica della competizione. Non piacciono
- è evidente – ai clienti o consumatori. E nemmeno
al commissario per il Mercato interno dell’Unione
Europea, Charlie McCreevy, che da Bruxelles,
all’inizio di luglio, ha messo in mora l’Italia per
la norma sull’inderogabilità delle tariffe minime
degli avvocati, ingegneri e architetti, perché
violerebbe la libertà di stabilimento e di
prestazione dei professionisti degli altri paesi
dell’Unione sancita dal Trattato. Insomma un
avvocato francese sarebbe scoraggiato a venire ad
operare in Italia perché costretto ad applicare le
tariffe minime mentre nel suo Paese questo vincolo
legislativo non esiste, essendo stato vietato
nell’ormai lontano 1984. Il nostro governo ha ora a
disposizione un mese di tempo per replicare. I
professionisti hanno già risposto:le tariffe minime
non si toccano. Di avvocati,per esempio, in Italia
ce ne sono quasi 160 mila, ogni anno crescono di
quasi 10 mila unità. Negli ultimi venti anni il
numero si è praticamente triplicato. La maggior
parte di loro opera dispersa in migliaia di piccoli
studi. In media se la passano bene, ma non
benissimo: secondo i dati della Cassa forense nel
2001 gli avvocati di sesso maschile avevano
dichiarato un reddito medio ai fini Irpef di poco
superiore ai 51 mila euro, contro i 21 mila delle
colleghe. La media totale, nel 2002, ha sfiorato i
46 mila euro. Nel 2004, con dieci anni di ritardo,
le nuove tariffe minime sono state aggiornate dal
ministro di Grazia e Giustizia, con un incremento
di circa il 25 per cento. Tutti numeri utilizzati
dagli organismi professionali per dire che esiste il
rischio di una concorrenza al ribasso delle
prestazioni, di una deregulation, a danno degli
stessi clienti. Michelina Grillo è un avvocato di
Bologna, ma è anche presidente dell’Oua, l’organismo
unitario dell’avvocatura italiana, e si accalora –
molto – quando sente parlare di superamento delle
tariffe minime. Lei la vede così:” L’attacco al
sistema tariffario ha altre finalità: far svolgere
le attività extragiudiziali da soggetti diversi
dagli avvocati. Questo è un attacco di alcuni poteri
economici forti al mondo delle professioni. Si
vuole, ripeto, allargare l’ambito delle attività
delle società di servizi, farle entrare nel mercato
delle tutela legale.” Sarà – obiettiamo – ma in
quasi tutti gli altri Paesi non ci sono le tariffe
minime inderogabili, lì si tratta tra professionista
e cliente. “Negli Stati Uniti o in Gran Bretagna –
replica – ci sono gli avvocati con la clessidra. E
l’onorario a tempo è molto più alto della tariffa”.
Ma la tariffa minima – dice – è anche una “garanzia”
per il cliente. Perché quando si va dall’avvocato
non si sa cosa si “compra”, c’è una classica
“asimmetria informativa” tipica di alcuni servizi.
Che non esiste quando si acquista un prodotto, che
si vede o si può toccare. Allora – è la tesi della
Grillo – è necessario fissare un paletto per una
prestazione decorosa ma anche per un introito minimo
che permetta al professionista di aggiornarsi, di
mantenere il suo studio pure sotto il profilo
tecnologico. Eppure i giovani avvocati
riuniti nell’Anpa sostengono che la difesa delle
tariffe minime è un modo per “mummificare” le
attuali caste professionali”. Inoltre,
laddove la liberalizzazione dei servizi legali c’è
stata, è il caso dell’Australia, le tariffe sono
scese di quasi il 12 per cento. Gli ingegneri,
quanto a tariffe, la pensano proprio come gli
avvocati. Dice Sergio Polese, presidente del
Consiglio nazionale degli Ingegneri, le cui tariffe
minime sono ferme dal 1987; “Di per sé la tariffa
minima non assicura la qualità, ma è indubbio, però,
che senza tariffa minima è più facile andare
incontro a prestazioni mal fatte”. Anche Carlo
Scarpa, professore di politica industriale
all’Università di Brescia, che ai processi di
liberalizzazione dei mercati dedica buona parte dei
suoi studi, si accalora quando sente questi
argomenti: “Affermare che la tariffa minima tutela i
consumatori non sta né in cielo né in terra. E’ una
tesi destituita di ogni fondamento. Chi ha mai detto
che prezzi più alti garantiscono una prestazione con
standard più elevati? La teoria economica ha
dimostrato proprio il contrario. E io posso essere
un ingegnere scadente e rispettare le tariffe
minime”. Dietro la difesa ad oltranza del sistema
delle tariffe c’è anche una sorta di pregiudizio
culturale – “di origine crociana” - , azzarda
Scarpa, - e che bene ha descritto Giuliano Amato nel
suo Il gusto della libertà, L’Italia e l’Antitrust;
“Ancora oggi in Italia molti nostri professionisti,
e gli ordini nei quali sono associati, rivendicano
con orgoglio la loro diversità dalle imprese
commerciali. Questa concezione riflette l’idea della
stratificazione sociale tipica della piccola
borghesia che riteneva vili le attività commerciali
: un classismo da quattro soldi, che non ha più
alcun senso oggi”. E oggi Giuseppe Tesauro, ex
presidente dell’Authority per la concorrenza,
confessa: “ Come avvocato mi vergogno di dire che la
qualità della mia prestazione professionale possa
dipendere dalla tariffa minima. La verità e che una
mera difesa corporativa”. Come quella che da oltre
20 anni impedisce la riforma degli ordini
professionali. Se ne parla del 1983. nel frattempo è
cresciuto il numero degli ordini e tra il 1994 e il
1996 sono stati presentati ben 70 disegni di legge
per istituire 40 nuovi albi. D’altra parte la lobby
dei professionisti siede proprio in parlamento: uno
studio del politologo Luca Verzichelli dimostra che
quasi il 40 per cento dei nostri parlamentari
appartiene ad una delle categorie professionali con
in vetta gli avvocati al 16,3%. In Gran Bretagna la
percentuale totale di parlamentari professionisti è
del 18,15%. La riforma delle professioni, comunque,
non si farà in questa legislatura, durante la quale
il governo di centrodestra ha presentato il suo
disegnao di legge. Il sapiente lavorio di mediazione
neo-democristiana del sottosegretario alla giustizia
Michele Vietti (passato all’Economia dopo il
rimpasto) è andato in fumo quando il ministro
leghista Roberto Castelli, ha voluto prendere per
mano la riforma, inserita prima nel famoso decreto
per la competitività, poi stralciata, infine
abbandonata in un binario morto. Vietti vorrebbe
riprovarci anche dalle sponde di via XX Settembre
attraverso il vagone della prossima finanziaria, che
,però, appare già stracolmo. Un testo,durante la
legislatura, è stato preparato dalla Commissione
Giustizia dai senatori di maggioranza e opposizione.
“Ma – hanno scritto due economisti della Banca
d’Italia, Chiara Bentivogli e Sandro Trento nel loro
recente manuale Economia e politica della
concorrenza – nessuno dei due (quello del governo e
quello dei senatori ndr) aveva la natura di una vera
riforma ed entrambi accoglievano in larga misura le
obiezioni degli ordini professionali”. Tutto come
prima, allora. Poco mercato e tante regole. I
clienti possono continuare a restare in sala
d’attesa.
Roberto Mania
19/08/2005